11 maggio 2011: Roma sarà distrutta da un terremoto?

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Il terremoto in Giappone, quello in Indonesia, la scossa in Messico. La catastrofe si avvicina e quel Raffaele Bendandi lo aveva detto: l’11 maggio di quest’anno un terremoto violentissimo spazzerà via Roma . Dopodichè scosse a macchia di leopardo sul pianeta immaginando la Ritcher schizzare come un termometro immerso in una pentola bollente. Lui, con quella fronte pur alta ma divisa da una papalina che gli proteggeva la calvizie dal freddo, macchie di unto ataviche sui ‘calzoni’, mai in cravatta. Interpellato dalla Rai ad ogni terremoto, Bendandi era un sismologo autodidatta faentino e scontroso, che sapeva prevedere i terremoti “d’influsso planetario”, come diceva lui. E pare ci prendesse molto.

Ieri i miei strumenti alle 20:36 hanno segnalato scosse con epicentro 123 chilometri ad est di Tahiti“. La stessa notizia arrivava poco dopo confermata dagli osservatori tedeschi e giapponesi. E lo stravagante ci prendeva anche, di molto prima. Al punto che se ne incuriosì il direttore Albertini, che mandò un inviato ad intervistarlo. Era Otello Cavara, ufficiale aviatore con Bendandi che, il 22 novembre 1923, davanti al notaio Savini di Faenza, dichiarò che il 2 gennaio si sarebbe verificato un terremoto nelle Marche. Fu così che il 4 gennaio in terza pagina il Corriere della Sera lo nominò “L’ uomo che prevede i terremoti“.

Allora la scienza accademica s’inasprì, ferita nella vanità da un autodidatta. E Bendandi, dal canto suo, s’irrigidì, fino alla scoperta dell’America: nel 1925 Thomas Morgan della United Press stipulò regolare contratto in cambio della sua collaborazione e Bendandi poté smettere il mestiere d’artigiano, con cui aveva campato fino ad allora. Poi la stima del Duce durante il fascismo e il titolo di Cavaliere della Repubblica sotto Gronchi.

Una storia entusiasmante, ma dell’11 maggio e di una Roma rasa al suolo ‘bombardata’ dalla Terra, nessuna traccia. Il terremoto della Marsica, 3 gennaio 1915, 11esimo grado della scala Mercalli, 30mila morti e una città, Avezzano, dove solo 3mila abitanti (su 11mila) poterono raccontarlo. Il terremoto di Senigallia del 2 gennaio 1924. Il Friuli, 6 maggio del 1976 ore 21:06, una scossa di magnitudo 6,5: quasi mille i morti e 45mila gli sfollati. Una teoria originale: “Secondo dati da me raccolti e controllati il sisma avviene quando nel giro mensile di una rivoluzione lunare l’azione del nostro satellite va a sommarsi a quella degli altri pianeti“.

Letta fa sorridere, interpretata un po’ meno. Perch� come detto, pare ci prendesse quel Bendandi, anche se di Roma non sapeva cosa farsene.

Eppure le smentite della Protezione Civile e di Paola Lagorio – chi meglio di lei – fisica e direttrice dell‘Osservatorio geofisico ‘Raffaele Bendandi’ di Faenza, secondo cui nelle carte del sismologo fai-da-te non vi sarebbe alcun nome luogo o data riportati sulla Capitale, non hanno smorzato animi e tantomeno allarmi. Perchè il nome del vecchio detto “non è vero ma ci credo”, oggi, ha sfiancato il raziocinio. Sul tavolo degli imputati, certamente, ci va la Rete, con la sua eloquenza da prima dama e quel suo spirito liberal-moderno che non di rado sfiora l’anarchia. Tuttavia, dall’altra parte c’è qualcuno che forse 20 anni fa ci ha detto che nell’11 maggio del 2011 saremmo tutti morti. Un po’ come la profezia dei Maya, persa nel dimenticatoio di chiunque, perch adesso c’è Bendandi. Del resto il popolo del web, che poi il popolo di sempre ma con un portatile dentro casa e la connessione internet, dispensa bene i suoi credi e i suoi valori. Gli d il tempo del consumo, per poi rimasticare nuova fantascienza.

Allora tanto vale guardarci intorno, buttare l’occhio dall’altro capo del mondo, dove di fronte al disastro nipponico, che sembra uscire dal capolavoro d’animazione di Hayao Miyazaki, ‘Nausicaä della Valle del Vento’, non è facile capire come sia possibile non farsi prendere dal panico, non lasciarsi andare alla disperazione più totale, non sentirsi completamente persi. La risposta è ovvia: essere preparati. E continuare ad esserlo, perché, su tutti, l’Italiano doc pare voglia invece soffocarsi d’ansie e strangolare gli altri con le sue psicosi (digitali). Come se avesse sempre il bisogno di mettersi in gioco: lo stimolo ad un egocentrismo esasperato che trova risposta nella bigottagine sociale. Alla disoccupazione in crescendo, ai passi falsi del sistema poitico, alle vallette ed al linguaggio aulico di Bonolis, l’italiano non diventa medio, ma se ne convince tale, ignorando quello stato regolare e monoforme, molto spesso invidiabile e certamente più appetibile dall’etica comune.

A tutto ciò, quell’Italiano, risponde col suo senso ironico e furbesco, decide di distrarre il popolo e lo colpisce con una favola allarmistica redatta online (fonti riferiscono che tutto ha avuto inizio da un post su Wikipedia e poi rimosso dai moderatori). Lo fa per ritornare al centro del suo mondo, per riprendersi i suoi spazi in un destino che non gli appartiene più, mentre scivola tra le inezie di un simulacro sociale sigillato dall’Auditel e dai tornaconti elettorali. È una reazione esasperata ad un presente alternativo, fatto di Bunga Bunga e Lele Mora, di opulenza e stramaledetta parsimonia.

Ora, è quasi certo che quell’Italiano se ne starà nella sua modesta casa, col solito giro di orologio che segna il suo abbandono e con l’illusione di aver trovato la sua gloria nella fandonia dell’11 maggio. Proprio quando Bendandi, nel suo laboratorio di Via Manara 17 a Faenza nel trafficare col suo rullo, sentì quella volta tremargli il cranio. Così, cadde muto; tra tavolo e stufa della camera da letto ai primi di novembre del ’79. Come muto cade Lui, che voce ha, ma non può gridare alcun sgomento.