Fusione fredda, Abundo: “Vogliamo ottenere energia a basso costo”

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Abundo articolo JNP

Fusione fredda. Ugo Abundo sta continuando non solo le sue ricerche personali sulle Lenr, ma anche il progetto all’interno dell’Istituto Tecnico per Costruzioni, Ambiente e Territorio ‘Leopoldo Pirelli’ di Roma, e con gli studenti continua a sviluppare il suo E-Cat, che prima aveva chiamato Athanor e ora Hydrobetatron. A questo proposito il professore ha accettato di incontrarci e di rispondere ad alcune nostre domande.

NM. Come è nato il progetto in una scuola e qual è stato l’effettivo contributo degli studenti?

UA. È nato quattro anni fa, quando questa scuola aveva iniziato le sperimentazioni, prima che entrasse in vigore la riforma della scuola superiore. Siamo passati dalla costruzione di una centrale idro-meteo ambientale ad una macchina dell’acqua, e poi abbiamo iniziato a mettere il naso in un settore della scienza attualmente non consolidato ma dibattuto. Le sperimentazioni qui sono al quarto anno e anche quella sulla fusione fredda è nata per fare laboratorietà, secondo quanto dicono le nuove indicazioni sull’insegnamento integrato delle scienze. Questa integrazione nasceva collegando fisica, chimica e scienze biologiche, ma noi abbiamo immediatamente inserito la matematica, perché non si può impostare un discorso se non ci mettiamo dentro anche il linguaggio per farlo. Si voleva semplicemente portare la laboratorietà nel senso pieno, alla portata dei ragazzi. Siamo partiti da rilevare dati meteo ambientali, pura didattica, poi abbiamo costruito una macchina per l’acqua, l’abbiamo portata in Congo gemellandoci con una scuola-ospedale di ragazzini che hanno fatto anche i soldati, prima di essere così mutilati da stare lì dentro senza possibilità di lavoro. Con i ragazzi abbiamo insegnato loro le basi dell’elettrotecnica, in francese, attraverso Internet, gli abbiamo donato un attrezzo che possa dare loro l’acqua ma che devono esercitare con competenze professionali. Tutto questo ha investito un successivo livello, che è servito ad appassionare i ragazzi agli aspetti socio-economici, ma anche geografici, perché si trattava di trovare dove andare a fare questa socialità. Siamo così andati dove c’è tanto sole, non c’è tanta umidità, però c’è elettricità, e non c’è acqua.

Il salto finale, con ‘Il Sole in laboratorio’, progetto biennale iniziato l’anno scorso e che sta andando avanti quest’anno, è stato voler superare il compito assodato della scuola che è quello di trasferire conoscenze e competenze, e prendere un settore dibattuto della scienza, dove ci sono i fautori del sì, i fautori del no, con le loro prove e contro prove, e far crescere nei ragazzi non una visione dettata da noi ma un metodo per affrontare i problemi proprio quando i problemi sono dibattuti. Questo, nelle nostre programmazioni, è la crescita delle competenze di cittadinanza. I ragazzi saranno investiti dal dover votare sul nucleare sì, nucleare no, inquinamento sì inquinamento no, è meglio il lavoro o la protezione della salute, e lì non vogliamo lasciare i ragazzi con le nostre ricette da professore come quando invece facciamo quando devono sciogliere qualcosa dentro l’acqua. Li vogliamo lasciare con la mente preparata ad affrontare problemi che sono dibattuti, costruendo in loro le basi. Non li abbiamo portati al livello decisionale, ma vogliamo che se li vivano da soli come cittadini. Questa cosa può superare anche il voler trovare la reazione nucleare “buona”.

NM. Comunque il Suo interesse alla fusione fredda era personale, precedente a questo lavoro?

UA. Ma proprio no. L’interesse era esclusivamente per rinnovare la didattica, cioè per dare ai ragazzi l’opportunità di non dover dipendere dalle nostre labbra su settori conosciuti. Ci siamo chiesti: qual è un settore dibattuto? E tra i settori dibattuti, scegliamo di capire quante zampe hanno le formiche che nascono con un difetto genetico, o, sulla scia di quello che avevamo fatto in passato, un problema sociale? E quale problema sociale è migliore di quello dell’energia, dell’inquinamento, della mancanza di risorse, della libertà democratica dei paesi emergenti di poter averle avere a basso costo? Perché dare energia a basso costo cambia un po’ tutti i parametri del commercio e dello sviluppo umano…

NM. Ci potrebbe dire come si è evoluto il progetto da Athanor a Hydrobetatron?

UA. Athanor nasce da alfa-thanatos, contro la morte, quindi una macchina che perennemente vuole rinnovarsi, vuole rimanere esistente fino a infrangere il momento finale. Quale migliore nome da scegliere per questo sogno alchimistico di trasformare la materia, invece che con la fisica atomica, con la chimica. Se le fusioni fredde funzioneranno e dimostreranno scientificamente di avere un fondamento, siamo proprio al limite: si trasforma la materia, si inserisce qualcosa nel nucleo atomico anche grazie a fenomeni più macroscopici, non solo microscopici come i bombardamenti nucleari. Athanor voleva essere fornace in senso generale, quindi anche crogiuolo di idee.

A un certo punto però la sperimentazione era giunta a dei momenti in cui non era più logisticamente affrontabile all’interno di una scuola. Problemi di sicurezza non ce ne sono stati e non ce ne saranno, perché è assodato in letteratura che emissioni neutroniche e di raggi gamma non dovevano esserci. Ciononostante, noi, per insegnare sicurezza, abbiamo messo degli schermi di piombo e di plexiglas, abbiamo adottato un contatore Geiger, e abbiamo telepilotato le reazioni con la webcam dall’altra sala. Quindi avveniva tutto in telecontrollo. Per questo problemi di sicurezza non ce ne sono stati, non potevano esserci, e in ogni caso, anche nell’emergenza, sarebbero stati affrontati.

Però, continuando la sperimentazione, non avremmo potuto dare gli stessi livelli, e quindi ora gli esperimenti proseguono in un laboratorio privato fuori dalla scuola, ma dentro la scuola resta tutto il propositivo, l’inventivo, l’interpretativo. Progettiamo dentro la scuola quali esperimenti condurre, poi portiamo i risultati ai ragazzi, con i quali vengono interpretati, al fine di pianificare misure sempre più a fuoco. Così come vengono costruite qui le apparecchiature prima di essere portate al laboratorio esterno, collaudate e testate. Andiamo al laboratorio esterno solo per fare “il pranzo di nozze”, ma poi ritorniamo a scuola con tutto ciò che facciamo lì, una sperimentazione pensata, desiderata, con le aspettative e tutto quello che deve esserci.

NM. Il laboratorio esterno di cui ci parla è quello della Fondazione von Neumann? Era un laboratorio con cui Lei collaborava prima del progetto con la scuola?

UA. Sì, un bunkerino dalla collocazione ignota. Riguardo al mio rapporto con la fondazione, tenga presente che questa si occupava di didattica. Dopo la didattica tal quale ha iniziato a studiare i metodi per rendere meglio ai discenti le materie, e lo ha fatto studiando il cervello del discente con l’intelligenza artificiale. Non perché questa arrivi al livello dell’intelligenza del discente, che non è di certo così bassa, ma essenzialmente perché spiegare una cosa ad un automa è così difficile che bisogna spiegarla bene. In questo modo, quindi, erano sicuri poi di poterla spiegare bene ai ragazzi.

Da un’intelligenza artificiale ad una modellistica con strumenti di approccio potenti il passo è stato breve, e quindi la Fondazione Neumann ha subito e volentieri dato una mano alle ricerche sulle Lenr, che coinvolgono un’interpretazione della fisica prettamente basataproprio su questo tipo di modellistica, gli automi cellulari di von Neumann (John von Neumann è stato uno studioso del funzionamento della nostra corteccia cerebrale, vissuto nel XX secolo, N.d.R.). Quindi il cerchio si è chiuso e siamo stati ospitati.

NM. Quando ha iniziato questo progetto, a chi si è ispirato? Quale letteratura ha consultato?

UA. A Settembre dell’anno scorso abbiamo acceso Internet e abbiamo cercato un “Kit per fusione fredda” sulla base di Fleishmann e Pons e non l’abbiamo trovato. Però su Google uscivano personaggi che facevano delle sperimentazioni. È stata una reazione esplosiva: ci siamo imbattuti in una gigantesca massa di informazioni, che abbiamo dovuto classificare, selezionare e ricondurre a pochi settori. Alla fine abbiamo scelto di condurre reazioni in regime di plasma elettrolitico, intanto perché queste erano quelle dove si poteva fare più didattica perché coinvolgevano tanti fenomeni, e poi per evitare la presenza di idrogeno esplosivo dentro una scuola.

Ma anche perché crediamo che questa strada, con la presenza del plasma, possa, almeno potenzialmente, preludere ad un utilizzo diretto dell’energia prodotta per effetto termoionico, e chissà, un domani, arrivare alla produzione diretta di energia elettrica, senza pagare la dogana del ciclo termodinamico, cosa che nei reattori attuali, come l’E-cat, è necessario fare (l’effetto termoionico consiste nel rilascio di elettroni dovuto all’aumento di temperatura, che fornisce loro l’energia cinetica sufficiente ad abbandonarne la superficie, N.d.R.). Andrea Rossi poteva arrivare a tutti i gradi che voleva, e, ok, ottimo per la produzione di vapore, ma se voleva energia elettrica, questa è già bloccata sul nascere. Infatti adesso sta sviluppando nuove tipologie di reattori, diverse, per arrivare alla produzione di energia elettrica (essenzialmente il cosiddetto Hot E-cat, N.d.R.).

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NM. Può farci un sintetico briefing sul meccanismo di funzionamento di questo plasma elettrolitico di cui ci ha appena parlato? Ci dica quello che può dire…

UA. Noi possiamo dire tutto, perché il nostro progetto, proprio perché nato in una scuola, è “open source”, così come nel mondo del software ci sono i sistemi operativi “proprietari” e quelli “open source”. Noi abbiamo sempre visto i due punti di vista non contrapposti, ma complementari, e così stiamo cercando di porci: non abbiamo niente contro coloro che ne fanno un business. Loro investono, ricercano, fanno brevetti, commercializzano e ottengono gli utili. È sempre stato così. È la funzione del brevetto quella di incentivare l’inventività, proteggendola per un certo periodo.

Però, d’altro canto, dà all’umanità la possibilità di conoscere i contenuti dell’invenzione, altrimenti uno non brevetta se non spiega tutto. Quindi noi sposiamo benissimo i comportamenti brevettuali per business, però noi andiamo ad accogliere l’altra metà del cielo: facciamo cioè un’operazione di divulgazione compartecipata (Ugo Adundo ha un canale attivo su Youtube sul quale carica i video dei suoi esperimenti, N.d.R.). Molte delle idee sperimentali che ci hanno permesso di andare avanti sono venute da feedback, cioè dalla rete che reagisce. Questa, nel criticarci, talvolta anche ferocemente, ci suggerisce, sempre talvolta, delle soluzioni per sopperire a quelle critiche, per cui tutti i test sono stati condivisi in rete. Per esempio c’era chi non credeva alla quantità di energia misurata: alcuni ci hanno criticato dicendo che forse immettevamo più energia di quella che pensavamo. Per aggirare questo ostacolo abbiamo chiesto sul web di creare un test condiviso da tutti, di avere suggerimenti su come condurre le misure. Siamo stati anche aiutati da ricercatori di vari enti, che però adesso non è il caso di nominare, ma che comunque ringraziamo anche sotto anonimato. Siamo quindi arrivati ad un test che soddisfa tutti e adesso quello che abbiamo pubblicato su Youtube come il set sperimentale (disponibile in tre parti sez 1 sez 2 sez 3, N.d.R.) non ha avuto critiche da nessuno. Anzi, è diventato quasi uno standard su come bisogna misurare l’energia in ingresso.

Abbiamo proposto la stessa cosa, uno standard, sulla misurazione calorimetrica dell’energia in uscita. L’abbiamo proposto, abbiamo trovato un set condiviso, e ora ci accingiamo a fare le misure. Questo non serve solo alle nostre sperimentazioni, per vedere se arriviamo prima degli altri, dopo degli altri o parallelamente agli altri. Tutto questo ci ha aiutato a definire uno standard per le misure in input e uno per le misure in output, e questo può essere un beneficio a vantaggio di tutti. Allora, perché abbiamo scelto questo plasma? Un catodo, metallico naturalmente (tungsteno, N.d.R.), e un anodo devono far sì che in una soluzione conduttiva si possa creare una corrente tale che, dissociandosi acqua, i protoni vadano verso il catodo e si liberi lì idrogeno e ossigeno all’anodo. Intanto si scalda il catodo, che fa anche effetto termoionico, il quale aiuta a portare elettroni per neutralizzare questi ioni idrogeno positivi per andare all’idrogeno neutro, che deve liberarsi atomicamente pulito.

Poi cosa accada dentro al reticolo del tungsteno non lo sa nessuno. Noi con questa teoria cerchiamo di concorrere a dare uno sguardo su quello che possa succedere (il professore si riferisce al suo recente articolo apparso sul Journal of Nuclear Physics, N.d.R.). Consideri che questa teoria non racconta chiacchiere. Adatta le equazioni di Schrödinger al contesto (le soluzioni di tali equazioni, estremamente complesse, forniscono la descrizione analitica dell’energia associata agli elettroni di un atomo, ma attualmente l’unica ad essere stata completamente risolta è quella dell’idrogeno, mentre per tutti gli altri elementi si effettuano calcoli in approssimazione, N.d.R.).

Abundo intervista intra

NM. Come Lei sicuramente saprà, ad Agosto c’è stato un convegno ad Austin, in Texas, dove si sono riuniti diversi esperti del settore ‘fusione fredda’. C’era Francesco Celani, per esempio, e c’erano anche dei rappresentanti della Defkalion Green Technologies, prima alleata di Rossi, poi concorrente. Durante l’evento, John Hadjichristos, International Division VP presso la società greca, ha dichiarato come segue: “L’ambiente di reazione nella quale si verificano le Lenr è sul reticolo cristallino di un ‘ambiente nucleare attivo’, con un metallo pesante, come ad esempio il nichel, con corretta dimensione e geometria, dove atomi di idrogeno eccitati interagiscono. Questo genera le condizioni per la formazione di diversi percorsi di trasmutazione e un processo di risonanza che dissipa eccesso di energia termica”. In pratica Hadjichristos dà per assodato che il meccanismo alla base di tutte le Lenr sia sostanzialmente il medesimo. Cosa pensa Lei di queste parole?

UA. È la descrizione a parole di quello che noi scriviamo con i nostri modesti calcoli. Io mi allineo perfettamente. Adesso la sfida è trovare delle equazioni maneggevoli, che possano essere gestite numericamente, in grado di orientare verso le migliori condizioni di esercizio di un’apparecchiatura che già c’è, oppure per progettarene di nuove. Non è una critica, né facile sarcasmo, ma è necessario anche che da ottime frasi si vada verso calcoli matematici. Perché ok cercare le condizioni sperimentali, ma, se non trovo una funzione matematica, starò sempre lì a sperimentare. Magari arrivo prima con la sperimentazione, ma è meglio avere entrambe le cose: la sperimentazione suggerisce le modifiche alla teoria e la teoria le direzioni in cui sperimentare. Comunque, come al solito, noi ci poniamo come complementari a quello che tutti gli altri stanno lodevolmente facendo.

NM. Dalle Sue parole si evince dunque che, secondo Lei, tutti coloro che si stanno attualmente occupando di Lenr (Rossi, di cui si parla forse di più, ma anche Celani, Piantelli) stanno seguendo strade potenzialmente valide. È così?

UA. Abbiamo pubblicato, io e Santandrea ma c’è dietro un pool di collaboratori, ‘The Brigde’, sul blog di Daniele Passerini, su cui davamo appena un flash: ‘The Brigde’ è il ponte tra i diversi approcci alla fusione fredda, che dobbiamo però chiamare Lenr ora. Noi li abbiamo divisi in due categorie: a secco e in regime elettrolitico. Ma la nostra filosofia è sempre quella di trovare quello che li accomuna: di fatto quello che c’è sempre è l’elettricità, nascosta o visibile, pilotata o preesistente nel materiale conduttore, anche se in realtà siamo convinti che pilotata forse possa dare rese migliori, perché indirizzata in modo più efficace. Un’altra cosa in comune è la matrice metallica, in particolare un metallo pesante (spesso di transizione come il ferro); poi c’è un reticolo entro il quale gli elettroni devono comportarsi in modo idoneo per accogliere l’assorbimento nella matrice dei protoni. Che poi questi vengano dall’idrogeno a pressione o che vengano generati in loco dall’elettrolisi dell’acqua, si parla sempre di idrogeno che deve essere assorbito.

Secondo tutto quello che Giuliano Preparata ha studiato, il cosiddetto ‘Effetto Preparata’, lì dentro deve succedere qualcosa, tra questi protoni e questi elettroni (L’effetto Preparata è una teoria secondo cui le forze elettrodinamiche esercitate dalle piccolissime particelle che compongono la materia, generalmente “a corto raggio”, possono aumentare sensibilmente il loro range di azione se messe in condizioni di risonanza con il campo elettromagnetico, ovvero se la loro frequenza è molto simile o uguale a quella del campo: Giuliano Preparata considerava questa ipotesi la base scientifica delle reazioni nucleari a bassa energia, N.d.R).

Allora ‘The Bridge’ vuol dire: “I metodi per convincere protoni ed elettroni ad interagire sono i più disparati, il piezonucleare, le onde sonore, le onde elettromagnetiche, ma tutti sollecitano energeticamente il reticolo perché interagisca con gli elettroni”. Quindi noi avremmo trovato una sorta di nucleo comune a tutte le sperimentazioni che apparentemente sono diverse. Che poi è probabilmente è quello che voleva dire il dirigente della Defkalion.

NM. Risulta abbastanza evidente dalle Sue parole, comunque ci può confermare che nei confronti degli altri esperti del settore il Suo atteggiamento è di collaborazione?

UA. Certo, gli altri possono anche stare in competizione tra loro, ma Santandrea e io ci poniamo come tessuto connettivo. Anche se noi portiamo avanti una sperimentazione nostra, non siamo “competitors” nei riguardi degli altri, e anche la nostra sperimentazione vuole essere tessuto connettivo. Per esempio noi proponiamo a tutti l’alimentazione elettrica, che di solito non c’è nei reattori a idrogeno secco.

NM. Lei ha più volte ribadito che il Vostro approccio è “open source”, ma noi sappiamo anche che, con la scuola, avete depositato e ottenuto un brevetto. Come si conciliano queste cose?

UA. “Open source” significa che noi vogliamo assolutamente far conoscere al mondo i risultati delle nostre ricerche. E delle ricerche degli altri, perché appena noi diciamo qualche cosina, gli altri sono costretti a rivelare un gradino di quello che stanno facendo. Quindi operiamo anche questo modo subdolo per costringerli a sbottonarsi. “Open source” significa che quando scopriamo una cosa, vogliamo poter dire tutto, senza che qualcuno la legga, la brevetti e ci mandi una citazione legale per intimarci di non parlarne più. Per questo l’abbiamo brevettata noi: non per uno sfruttamento economico, tanto è vero che io e altri tre docenti della scuola abbiamo la paternità intellettuale, ma i diritti di sfruttamento sono all’Istituto Pirelli, un’istituzione scolastica. Il nostro è quindi un brevetto difensivo.

NM. Ma che tipo di brevetto avete chiesto, italiano o internazionale?

UA. Noi adesso abbiamo un brevetto italiano. E per ora non pensiamo di esportarlo perché non dobbiamo andare in Cina a produrre secondo il nostro brevetto. Noi dobbiamo solo evitare che qualcuno possa coprire da brevetto qualcosa che ormai è di dominio pubblico, quindi non più brevettabile.

Abundo in persona

NM. Noi di NextMe abbiamo recentemente intervistato anche Alberto Carpinteri. Lui sostiene che, sfruttando le reazioni piezonucleari che, secondo la sua teoria, avvengono anche nel sottosuolo, sarebbe possibile prevedere i terremoti. Lei che ne pensa?

UA. Sono perfettamente d’accordo. Siamo stati ad un convegno dove lui ha esposto questo suo punto di vista. Ma attenzione, il prof Carpinteri, a chi gli ha chiesto se da ora si possono prevedere i terremoti, ha replicato: “Non sto dicendo questo”. Lui ha detto che, poiché ci sono evidenze sperimentali secondo le quali, prima dei terremoti, durante i movimenti tellurici, si generano emissioni anomale di particelle rilevabili dagli strumenti, questo è un terreno che occorrerebbe indagare, sul quale portare avanti sperimentazioni. Non vedo perché trascurare un possibile campanello d’allarme prima di un terremoto. Né lui si è messo a controllare se tutti i terremoti producono questo campanello, se l’entità è proporzionale al terremoto, e se si può effettivamente prevedere quando avverrà una scossa. Però insomma, se si trova un campanello d’allarme, è interessante andare alla ricerca e cercare di indagare più a fondo.

NM. Tuttavia le critiche mosse a Carpinteri riguardano non solo l’eventuale emissione di neutroni dai materiali sottoposti a grandi pressioni, ma anche l’impossibilità che quei neutroni possano uscire dal sottosuolo, per essere rilevati, senza essere assorbiti almeno dall’acqua che nel sottosuolo è indubbiamente presente. Lei che ne pensa?

UA. Carpinteri non ha mai detto che si possa materialmente prevedere i terremoti: ha detto semplicemente che si potrebbero fare ulteriori indagini. Lui parla anche di cambiamenti nella composizione della crosta terrestre nelle varie ere geologiche (il professore si riferisce al lavoro di Alberto Carpinteri che il ricercatore ha discusso anche con noi di Nextme). Quindi secondo me qualcosa sulla quale vale la pena posare l’attenzione c’è.

NM. Tornando a parlare del Suo lavoro, sappiamo che è in previsione la messa a regime del sito ufficiale di Athanor. Può darci delle news a riguardo?

UA. Dunque, questo sito ufficiale deve convivere con i media, che si stanno interessando di noi (voi ne siete un esempio importante) e che per questo ringraziamo. Stiamo cercando di dosare la convivenza. Comunque, non lo neghiamo, abbiamo delle effettive difficoltà tecniche, perché i provider sono molto più pronti ad alloggiare “la casa della sposa” che un sito che sta dinamicamente cambiando, però le difficoltà tecniche si superano, le stiamo superando. Nel frattempo abbiamo avuto un tempo importante per pensare a come renderci omogenei con il resto della rete e quindi, intanto è nata la strada di Youtube, con la quale abbiamo ufficializzato i punti salienti della ricerca, le sue pietre miliari, e adesso nel sito ormai continueremo a fare così, anche per facilità tecnica: risolviamo una cosa e la mettiamo su Youtube, mandiamo una mail a Daniele Passerini per informarlo del nuovo video in rete, e sul sito mettiamo il link al blog 22passi. Questo potrebbe essere uno schema semplificato di informazione, anche perché dobbiamo stare in tempi rapidi. Adesso stiamo mettendo sul nostro sito tutti gli arretrati, tutta la parte pregressa. Mantenere un legame in tempo reale sarebbe tecnicamente difficile con forze non sovraumane.

NM. Alcuni ricercatori che si sono imbattuti in queste ricerche lamentano di essere osteggiati dalle cosiddette ‘lobby dell’energia’. Voi come vi ponete a riguardo?

UA. Noi ci poniamo in modo modesto, e quindi forse più forte. Invece di giocare a vedere se siamo più forti noi, giochiamo a “noi deboli come ci pigli?”, e i fatti dimostrano che così facendo stiamo riuscendo a sgattaiolare in una rete che, pure se si infittisce, non ci imbriglia. Come gli elettroni nel reticolo. Riguardo alle lobby, prima pensavamo ingenuamente che fossero loro a non volere lo sviluppo di queste ricerche. Ma proprio qualche giorno fa, festeggiando i quarant’anni dalla maturità, ho incontrato un mio collega, dirigente in un’importantissima società italiana dell’energia, che mi ha confessato: “Guarda che noi siamo interessati all’economicità delle cose. Il giorno che bisognerà fare a idrogeno invece che a petrolio, noi ci mettiamo dodici secondi a passare all’idrogeno. Noi non siamo mica gli sceicchi, siamo coloro che commerciano con l’energia, quindi non siamo noi gli ostacoli”.

Poi abbiamo pensato ad ostacoli di tipo militare, perché, se per caso venissero usati meccanismi di fusione fredda all’interno delle armi convenzionali, allora sarebbe bene che la fusione fredda non possa assolutamente esistere, perché altrimenti si userebbero bombette atomiche nelle guerre tradizionali. Così come condivido che le società dello sfruttamento energetico, al momento che si dovesse usare l’idrogeno si butterebbero sull’idrogeno (anzi alcune iniziano a prendere piccole quote di società innovative), credo che ci possa essere qualcosa di pericoloso nel mondo militare, per cui questo mondo possa in effetti osteggiare in qualche modo queste ricerche.

Invece per quanto riguarda gli ostacoli che provengono dal mondo della scienza, quelli sono fisiologici e necessari. La scienza cerca sempre, giustamente secondo me, di mantenere la stabilità così com’è nello specifico momento: sta ai ricercatori l’onere di forzare l’edificio costituito, dando delle dimostrazioni che abbiano un valore tale da riuscire a scardinarlo. In palestra non ci si allena sollevando le piume, ci si allena sollevando i pesi: senza pesi il muscolo non cresce. Senza quel fisiologico ostacolo, dunque, che la scienza consolidata avvicina alle nuove ipotesi, queste sarebbero migliaia, un’esplosione combinatoria. In pratica succederebbe che ognuno potrebbe svegliarsi la mattina e dire che ha la soluzione per il mondo, e tutto andrebbe bene. Quindi, a differenza di tanti altri che vedono nella comunità scientifica, che è un po’ conservatrice, un ostacolo alla ricerca, io ci vedo invece quel giusto stimolo e controllo che fa filtrare solo le ricerche hanno la forza sufficiente per filtrare.

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NM. Quando pensa che l’energia prodotta in questo modo potrà essere a disposizione dell’umanità?

UA. Io penso che Andrea Rossi sia già in possesso di un apparecchio che possa arrivare al livello di produzione industriale, e tanti altri lo stanno seguendo. Magari, chissà, un giorno arriveremo anche noi. A questo proposito, su come porci a livello brevettuale ed economico abbiamo un’idea, che magari poi potremo anche affinare in futuro. In particolare, se arrivassimo a qualcosa di importante, sfruttabile industrialmente, vorremmo, sempre per complementarietà rispetto a quelli che hanno il cosiddetto software proprietario invece che open source come noi, individuare una fetta di distribuzione diversa. Coloro che ne fanno esclusivamente un business, e premesso ancora che non li riteniamo immorali perché fanno che ha fatto sempre Edison, che è diventato ricco con le sue invenzioni, pagano poco l’energia all’atto di produrla, e poi la vendono ad un costo normale, incamerando la differenza, il vantaggio (così come fanno quelli che producono pannelli fotovoltaici, che smettono di coltivare mais e mettono sul campo tanti pannelli): a noi sembra che questa non sia una rivoluzione, ma la normalità.

La rivoluzione potrebbe forse consistere nel dare questa differenza a favore dell’umanità, in modo che sia l’utilizzatore finale a pagare meno l’energia. Dio non voglia che i nostri processi arrivino a livello industriale! Perché poi voglio vedere questi signori come competeranno con qualcuno che spiega open source a tutti come costruirsi un apparecchio per pagare poco l’energia. È questo il nostro obbiettivo: donare agli utilizzatori finali il vantaggio di questa energia, che costa poco produrre e che quindi loro possono pagare poco. Ci terremmo solo un piccolissimo margine, una royalty proporzionale all’utilizzo, per ripagare il costo della sperimentazione, le soddisfazioni degli sperimentatori, e per coloro che industrialmente ci stanno vicini, in modo che il prodotto si mantenga competitivo, altrimenti diventerebbe subito obsoleto. Insomma per rifinanziare la ricerca. Stiamo tentando di capire dal punto di vista legale come potrebbe essere costituito un brevetto a beneficio dell’umanità, completo di tutte le giuste paternità intellettuali. Qualcuno potrebbe sorridere, pensare che è prematuro, visto che la resa non è ancora almeno del 6 mila per cento (!), ma le cose vanno preparate per tempo. E poi bisogna crederci, altrimenti le apparecchiature se ne accorgono e smettono di funzionare.

NM. Ma quali sono effettivamente le Vostre rese?

UA. Se dobbiamo confrontare le rese raccontate da noi e le rese raccontate dagli altri, gli altri hanno raccontato 600 per cento, noi 300 per cento, ma appena vogliamo noi siamo in grado di raccontare 800 e loro 200. Ma qui si tratta di vedere che rese possono essere dimostrate in modo sperimentalmente corretto. Il metodo di misurazione dell’input, come ho accennato prima, esiste ed è già stato condiviso in rete. E siccome la resa è l’output diviso l’input, adesso stiamo mettendo a punto un metodo condiviso per la misurazione dell’output, e quindi di rese scientificamente valide se ne potrà parlare solo dopo. Per il momento abbiamo tentato (e messo su Youtube) di operare un calcolo dell’over-unity, per confronto, non una misurazione diretta: in pratica abbiamo preso due apparecchi identici, uno è stato esercito con riscaldamento elettrico e l’altro a plasma, e abbiamo fatto correre le due macchine in questo confronto, rilevando che quella a plasma ha vinto sul filo del rasoio per un 20 per cento.

Voglio sottolineare però che qui è importante anche il mezzo per cento, perché dal 100 per cento c’è la macchina a moto perpetuo, però è chiaro che queste non sono macchine a moto perpetuo, come qualche giocherellone va raccontando, perché si sta ben dicendo da dove prendono l’energia: le annichilazioni di massa, una ben precisa fonte di combustibile. Comunque il 20 per cento dovrebbe stare fuori dalle determinazioni sperimentali. Il discorso va concluso dicendo che una macchina nata per fare un confronto pulito e scientificamente corretto non ha poi la possibilità di correre e dare delle grandi rese. Con questa avevamo molti vincoli: non potevamo andare a grandi voltaggi, non potevamo raggiungere il punto di ebollizione, ma sembra che nel nostro piccolo, questa macchina per over-unity, nata da appena un anno, stia lavorando almeno nella direzione giusta. Adesso vedremo cosa succede con la macchina “da corsa” (ovvero quella per la misurazione corretta dell’output, N.d.R.).

Al progetto, oltre ad Ugo Abundo, docente di fisica, collaborano Paola Pieravanti di matematica, Alessandra De Santis di scienze e Domenico Ginesi di chimica.