Esattamente ottant’anni fa, il 15 marzo 1944, gli aerei B25 Mitchell americani, nell’ambito dell’operazione Strangle, decollavano per bombardare le forze naziste a Cassino. Inaspettatamente, solo tre giorni dopo, il Vesuvio si risvegliò in una delle sue più memorabili eruzioni. Il pomeriggio del 18 marzo segnò l’inizio dell’ultima grande eruzione del Vesuvio, che proseguì per undici giorni. Questo capitolo significativo della storia vulcanologica ci è stato tramandato grazie al coraggio e alla dedizione di Giuseppe Imbò, direttore dell’Osservatorio vesuviano. Nonostante le difficili condizioni di vita, confinato in una stanza dall’occupazione alleata, Imbò non cessò di studiare l’evento da vicino, aveva predetto l’eruzione un anno prima senza essere ascoltato e, rimanendo al suo posto anche nei momenti più critici, documentò le quattro fasi dell’eruzione, fornendo un contributo inestimabile alla scienza.
La presenza delle truppe alleate a Napoli lasciò preziose testimonianze fotografiche e video di quanto accadde. L’eruzione del 1944 rappresentò un momento di svolta nella morfologia del Vesuvio, segnando il passaggio da un vulcano con attività a condotto aperto a uno con condotto ostruito, caratterizzato oggi solo da attività fumarolica e bassa sismicità, e causando la morte di 216 persone e migliaia di sfollati.
L’ultima eruzione e un impressionante spettacolo naturale
Giuseppe Imbò descrisse con precisione il parossismo iniziale dell’eruzione: l’apparizione di un imponente pennacchio di fumo rosso intenso, inclinato verso nord. Questo segno premonitore fu seguito dalla distruzione del cono di scorie e dalla discesa di colate laviche a velocità impressionanti. L’intervento tempestivo dell’esercito alleato permise l’evacuazione delle comunità di San Sebastiano al Vesuvio e Massa di Somma, salvando numerose vite. Questa fase effusiva si arrestò miracolosamente il 22 marzo, dopo aver minacciato gravemente le aree circostanti.
La seconda fase dell’eruzione vide emergere fontane di lava di straordinaria altezza, tra gli 800 e i 1000 metri, che durarono fino a cinque ore ciascuna. Questo fenomeno, accompagnato dalla diffusione di ceneri fino a 400 chilometri di distanza, modificò profondamente il paesaggio dell’area vesuviana e dell’agro nocerino, ricoprendo i villaggi con uno strato significativo di cenere.
Il 22 marzo iniziò la terza fase, caratterizzata da esplosioni miste di bombe e lapilli, che elevarono una colonna di gas e ceneri fino a 5, se non 10, chilometri di altezza. Questi fenomeni provocarono flussi piroclastici e la morte di 23 persone a causa del crollo dei tetti sotto il peso della cenere. La quarta fase, sismo-esplosiva, introdusse una minore frequenza nelle esplosioni ma un’intensa attività sismica, segnando gradualmente il calo dell’attività eruttiva fino alla sua conclusione il 29 marzo.
Danni, evacuazioni e il ruolo protettivo di San Gennaro
Le comunità di Terzigno, Pompei, Scafati e altri comuni furono gravemente colpite dalla caduta di materiali piroclastici, mentre circa 10.000 residenti furono evacuati dalle aree più esposte. Napoli, protetta dai venti favorevoli, evitò le conseguenze più devastanti dell’eruzione. In questa difficile circostanza, la devozione dei napoletani verso San Gennaro emerse come un simbolo di speranza e protezione.
Per commemorare l’80° anniversario di questo evento, dal 17 al 19 marzo 2024 si terranno visite guidate all’Osservatorio Vesuviano e ai luoghi emblematici del vulcano, un’iniziativa volta a educare e coinvolgere la comunità locale e gli studenti sulla storia e la prevenzione dei rischi vulcanici.